Ritorno alla Thyssen tra i fantasmi della Linea 5


Lo stabilimento oggi è immerso nelle tenebre, c’è solo qualche neon acceso negli uffici
Sul muro di cinta coesistono scritte anarchiche e teneri ricordi di chi non c’è più
Ritorno alla Thyssen tra i fantasmi della Linea 5

TORINO –
Il buio è circondato da seicento metri di muro, e più nessuna insegna.
Là sopra, sul tetto lungo e piatto stava scritto ThyssenKrupp Acciai
Speciali: adesso niente, la fabbrica dei tedeschi non si chiama più. I
girasoli attaccati al lampione in una specie di antico funerale sono
secchi, e nel vento penzolano brandelli di scotch. Silenzio profondo.
Poi, improvviso, il rombo dei camion. Qui tutto appare due volte morto:
6 dicembre 2007, il fuoco, un anno fa. E adesso, e domani.

La
grande magnolia col tronco annerito era un monumento ai caduti, proprio
davanti all’ingresso della fabbrica color ruggine. Forse un altare, o
un grido nel vuoto. Sulla corteccia è rimasto il cartellone con le
sette fotografie, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario,
Giuseppe, poi un drappo rosso che il tempo ha scolorito. A terra, i
resti di qualcosa che fu un fiore. Arriva una guardia. "Via, qui non si
può stare". Ma come? Neanche per guardare un albero? "Non si può più,
per favore, via". Pietro Russo è rimasto lì dentro fino a qualche
giorno fa. Ex impiegato tecnico ora cassintegrato.

È stato tra
gli ultimi ad abbandonare le navate alte dieci metri e lunghe trecento.
Uno degli ultimi, anche, a poter raccontare cos’è oggi la "linea 5",
quella dove l’aria prese fuoco ingoiando persone. "Ci sono i sigilli
dei giudici tutto attorno ai macchinari, rimasti esattamente come
quella sera – spiega – Hanno spento le luci, non si vede quasi niente.
Lì dentro il sole non entrava mai. E intorno ci sono le fosse,
ovviamente in sicurezza, gli enormi buchi delle macchine smontate e
portate a Terni, nell’altro stabilimento Thyssen".

Bisogna
immaginare un interminabile corridoio, racconta Pietro, con una specie
di vagone accanto: il forno. Rossi i pavimenti e i piloni, gialli i
tubi e le ringhiere. Nero tutto il resto. Il buio è un calamaio, un
pozzo sfregiato dall’inferno più o meno a metà strada, 150 metri oltre
l’inizio dei sigilli rossi e bianchi. Manca poco all’una di notte. Il
nastro d’acciaio scorre, sbanda, scintilla, olio e carta innescano la
bomba, scoppia un flessibile pieno d’olio, l’onda è una bocca rossa che
divora ogni vita. "Si vedono ancora le strisce di olio bruciato, uscito
dalla macchina e subito incendiatosi". Gli acidi, i gas, l’elettricità.
L’apocalisse. Dopo un anno, è come guardare dentro il motore di
un’immensa auto carbonizzata: tubi, manicotti, cilindri, bulloni,
dischi, tutto però cristallizzato da una specie di morte nera. Per
salvarsi, ed era impossibile, si sarebbero dovuti attraversare almeno
quindici metri compatti di fiamme.

Il fumo ha disegnato per
sempre i contorni della strage, anche se i padroni avrebbero voluto
portare via tutto, smontare e rimontare altrove, rimuovere,
dimenticare. Lo ha impedito l’inchiesta. "Ma io ricordo che il mattino
dopo il disastro, i tedeschi volevano ripartire con la produzione" dice
Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. "Non fu facile
impedirlo". Cosa resta dopo un anno? "La ferita della domanda: si
poteva evitare? Io dico di sì. La sconfitta sindacale, perché la
fabbrica adesso è chiusa. E la conferma della generale svalutazione del
lavoro operaio, se le merci diventano più importanti delle persone".

Qualche
pallido neon illumina le palazzine degli impiegati, in un lucore da
camera mortuaria. Invece la fabbrica è totalmente buia. Nell’immensa
navata – nell’area delle vecchie Ferriere lavoravano 13 mila persone
negli anni Ottanta, e adesso zero – si aprono gli abissi della
dismissione. Le squadre delle aziende che montarono gli impianti, come
la tedesca Demag, sono venute a smontare, pezzo per pezzo, il corpo di
una fabbrica e la storia di migliaia di persone, sette delle quali
uccise. Prima del rogo avevano già portato via la linea B/A e il
laminatoio Sendzimir 54; dopo tre mesi di stop, a marzo si è tornati a
svitare, tagliare, togliere. Via un secondo laminatoio più grande, il
Sendzimir 62, e un terzo più piccolo, lo Skinpass 62. A seguire, due
linee di taglio. "Adesso si sta dismettendo la linea 4" spiega Pietro
Russo. La maledetta linea 5 resta lì, circondata dal nastro bianco e
rosso: a gennaio inizierà il processo in Corte d’Assise. "La cosa
strana è che non c’è puzza di bruciato, e neanche odore di ferro. Ma
neppure prima si sentiva, o forse eravamo talmente abituati da non
sentirlo più".

La massa impressionante è il rotolo d’acciaio da
settemila chili, il termine tecnico è aspo, un enorme cerchio grigio
ancora pieno di macchie d’olio bruciato. "Nella linea 5 lo si rendeva
sottile, adatto alla fabbricazione di oggetti di qualità: posate,
pentole, vassoi, ma anche la lamina delle lavatrici, oppure tubi". Qui
ha preso forma l’esatto contenuto della parola inferno, eppure la voce
di Pietro conserva l’orgoglio del lavoro fatto bene, una specie di
bizzarra felicità. "Perché lo voglio dire: qui, fino al 2006 abbiamo
lavorato tanto, in condizioni di sicurezza. Poi l’azienda decise di
chiudere, e allora smise di occuparsi anche delle cose minime però
essenziali, non solo la salute dei lavoratori, persino la carta
igienica nei bagni".

Il silenzio è innaturale per chi conserva
nelle orecchie e nella pancia il boato di una produzione che non si
fermava mai, sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno. Nella
palazzina degli uffici si aggirano come zombi una decina di impiegati:
cinque "si collegheranno" alla pensione, altri cinque faranno compagnia
ai 28 operai "da ricollocare", attualmente a Camerana per un corso
d’aggiornamento. Completano l’elenco due disabili e due distacchi: uno
è Antonio Boccuzzi, il superstite della linea 5 diventato deputato.

La
cassa integrazione scadrà il 3 marzo 2010. Chi alla Fiom si è battuto
più di tutti per il loro posto è il sindacalista Fabio Carletti. Adesso
il lavoro è quasi finito, e può scuotere per bene la testa. "Il mio
cruccio è avere perso. Ma, di più, avere conosciuto un padrone che non
ha nessuna considerazione degli altri. Uno che dice con brutalità anche
sincera che il lavoratore è suo, lo paga e dunque ne fa quello che
vuole". Invece Giorgio Airaudo prende a schiaffi l’aria, mentre quasi
parla con le mani: "Quando il lavoratore è debole, anche il sindacato
lo è. Forse è venuto il momento di chiedersi cos’è, oggi, la classe
operaia". A Torino, 170 mila metalmeccanici. Il dieci per cento del
totale nazionale. Invisibili. "Io provo tanta rabbia. Poteva non
avvenire, doveva non avvenire".

Il mostruoso vagone della linea 5
è il più lontano dall’ingresso su corso Regina Margherita: sta quasi
addossato all’ex Ilva, altra acciaieria fantasma. Poi, i centoventi
metri del capannone – in larghezza – e la strada che separa la fabbrica
dagli uffici con lo spogliatoio, al piano di sopra, e sotto la mensa.
Dentro, i passi rimbombano come in una cattedrale sconsacrata. Ma sono
gli ultimi rumori. Qualche mese ancora e il silenzio sarà assoluto,
magari non servirà neppure la guardia che adesso si è seduta nella sua
macchina bianca e verde, con le insegne cubitali di una polizia
privata, e aspetta che il ficcanaso metta in moto e sparisca.

Perché
questo è il turpe desiderio, questa l’insana speranza: cancellare ogni
cosa, far scappare gli ultimi residui di memoria. Renderli come il
fiocco nero, segno di lutto che qualche mano pietosa legò al
mancorrente e dopo un anno giace a terra, stinto, insieme ai petali
secchi, al cellophane di una remota era preistorica. È diventato
pallido anche l’inchiostro delle scritte. Una, bianca sui mattoni della
palazzina, dice "Mase vive". E magari un po’ è vero, finché anche solo
un essere umano ti vuole bene se pure non ci sei più, però Mase – cioè
Giuseppe Demasi, 26 anni, la settima e ultima vittima dopo quattro
interventi chirurgici, una tracheotomia e tre rimozioni di cute in vana
attesa della pelle nuova – sta nello stesso angolo di cimitero degli
altri, non tutti, cinque, dove una striscia azzurra tracciata dal
Comune indica la strada, aiutando a trovare i ragazzi morti nel fuoco
della fabbrica. Anche così si prova a non dimenticare. L’altra scritta
in realtà sono due, spruzzate dodici mesi fa da una bomboletta contro
il cemento del muretto esterno, dove si appoggia la ringhiera verde.

"Di
lavoro si muore, sciopero selvaggio" con tre punti esclamativi. E più a
destra, continuando: "Operai bloccate tutto!" e il simbolo
dell’anarchia. Remotissimo, quest’ultimo slancio a battaglia ormai
conclusa, perduta.

Invece la quarta scritta è un tabellone
pubblicitario, messo proprio dove comincia la fabbrica e dove finisce
la città. Dice: "Christmas Village, vola in un magico Natale". Appesi a
un secondo lampione, due mazzetti di rose rosse hanno resistito alle
stagioni, all’estate torrida e a questo freddo cattivo: i fiori stanno
imbozzolati dentro il cellophane, con molti giri di nastro adesivo per
isolare e difendere. Viene quasi da immaginare il gesto d’amore feroce,
certamente di mano di donna, che pose quei fiori. Proteggerò tutto di
te.

Il traffico della tangenziale sposta l’aria con schiaffi
decisi. Ogni tanto la sbarra del parcheggio si solleva e libera un’auto
che pare guidata da nessuno: chi è rimasto non è meno spettro di chi è
andato. Dalla montagna in fondo al corso, nitida e netta come una
cartolina o forse un sogno, scende aria gelata. Il cielo ha lo stesso
colore dell’acciaio che si srotolava da gomitoli alti come una casa,
finché lo maneggiavano gli operai della Thyssen. Ma stasera sembra un
coperchio posato sul mondo.

di MAURIZIO CROSETTI La Repubblica.it (5 dicembre 2008)