Pieghevole fronte / retro e locandina da stampare e diffondere.
Gennaio 2011: due anni dal massacro di Gaza
GIOVEDÌ 20 – ORE 21: TO SHOOT AN ELEPHANT di A. Arce e M. Rujailah, 2009, Spagna
VENERDÌ 21 – ORE 21: INCONTRO PUBBLICO con Ugo Giannangeli co-autore del libro Palestina, pulizia etnica e resistenza
KINESIS TRADATE – VIA CARDUCCI 3 – tel/fax 0331 811662 – kinesis.tradate@gmail.com
TO SHOOT AN ELEPHANT – Palestine. Gaza Strip. Dec 08 Jan 09.
Le immagini del film sono una delle poche testimonianze visive di quanto successo a Gaza nel dicembre 2008 e gennaio 2009, quando Israele lanciò l’offensiva sulla Striscia nel silenzio quasi completo dei media. A quel tempo, soltanto il corrispondente di Al Jazeera trasmetteva, via TV e social network, immagini completamente ignote al resto del mondo, ignaro, indifferente o semplicemente “impedito” da Israele a mandare giornalisti sul posto per documentare quando accadeva. Alberto Arce, si trovava a Gaza insieme ai suoi compagni dell’International
Solidarity Movement quando le grida degli F16 israeliani attraversavano violentemente il cielo, mescolandosi agli strazi delle prime vittime civili e dei relativi familiari. In quei ventuno giorni Arce da attivista si è trasformato in testimone munito di videocamera e, soprattutto, di Mohammad Rujailah, un giovane palestinese di 24 anni che ha fornito un fondamentale apporto linguistico e logistico.
Per fermarsi Israele ha avuto bisogno di 1.417 morti, tra cui 313 bambini, in quella che è stata la più atroce ed evidente articolazione bellica di una politica di
gestione del territorio volta de facto alla rimozione della presenza palestinese da certe zone.
QUALE SOLUZIONE PER LA QUESTIONE PALESTINESE?
Il 14 maggio 1948, dopo una campagna di terrore stragistico contro i palestinesi per cacciarli dai loro villaggi e dalle loro terre, Ben Gurion – esponente del sionismo (1) di sinistra – proclama arbitrariamente la costituzione dello Stato di Israele: il giorno dopo inizia il conflitto arabo-israeliano tuttora in corso.
Fin dalla sua origine, il movimento sionista rappresentava il contrario della soluzione reale di ciò che veniva chiamata la questione ebraica; prodotto diretto del capitalismo europeo (è con i capitali di Rothschild che si è organizzata la colonizzazione della Palestina), esso mirava non al rovesciamento di una società che aveva bisogno di perseguitare gli ebrei per deviare il malcontento crescente degli sfruttati, ma alla creazione di un’entità nazionale ebraica che sarebbe stata al sicuro dalle aberrazioni antisemite (2) del capitalismo decadente; non all’abolizione dell’ingiustizia, ma al suo transfert.
Ciò che costituisce il peccato originale del sionismo è di aver sempre ragionato come se la Palestina fosse un’isola deserta.
Il movimento operaio rivoluzionario vedeva la soluzione della questione ebraica nella comunità umana, cioè nell’abbattimento del capitalismo e della religione (oppio dei popoli), poiché l’emancipazione dell’ebreo non può avvenire al di fuori dell’emancipazione dell’uomo. Il sionismo partiva dall’ipotesi opposta. Esso ricreava dunque tutto ciò di cui gli ebrei erano stati vittime: il fanatismo e la segregazione.
Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni contro i paesi arabi, si ha la massima espansione dell’Entità Sionista (3) con l’annessione anche di Gerusalemme Est.
Ma è con gli accordi di Oslo del 1993 che si ha il passaggio fondamentale che porta alla situazione odierna: mentre si impedisce il ritorno dei circa 3 milioni di profughi palestinesi, i coloni israeliani, da 100 mila che erano nel 1993, sono oggi diventati 450 mila (considerando anche Gerusalemme Est, dove sono stati costruiti interi quartieri ebraici e dove, dal 1967, ai palestinesi è vietato di andare ad abitare), le terre palestinesi continuano ad essere confiscate, l’accesso alle risorse idriche è monopolizzato dall’Entità Sionista, la libertà di spostamento per gli abitanti dei Territori è resa difficoltosa o impedita dagli innumerevoli check-point, dalle “strade chiuse” che collegano gli insediamenti dei coloni in Gaza e Cisgiordania e negli ultimi anni dal “Muro” o “Recinto di Sicurezza” (come lo chiama il governo israeliano) (4), i carri armati sionisti continuano a circondare ed assediare diverse città e villaggi palestinesi, lasciando dietro di sé macerie, cadaveri e disperazione in una popolazione ormai stremata da anni di isolamento, privata di acqua, di cibo e di medicinali.
Il sangue, dunque, continua a scorrere in Palestina, in una spirale di morte, di odio e di vendetta.
L’ O.L.P., riconoscendo lo Stato d’Israele e accettando un’autonomia limitata sui propri territori, ha allontanato ulteriormente una possibile autodeterminazione dei palestinesi.
In nome di un presunto processo di pace si nasconde il fatto che ai palestinesi non è data alcuna possibilità di costruire un’entità realmente indipendente, ma solo un mini-Stato privo di ogni possibilità di sopravvivenza con, di fatto, un’unica funzione: quella di reprimere i palestinesi che vogliono ribellarsi all’oppressione sionista. Quando si parla di pace, si parla di una pace imposta dagli americani e dagli europei per il controllo dell’aera medio-orientale e per condurre in santa pace la guerra già in corso in Afghanistan, in Iraq e il presumibile attacco all’Iran. Tutti i compromessi che le grandi potenze e i loro rispettivi alleati (compresi i regimi arabi) cercano di mettere insieme non possono, in ogni modo, che peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi e di tutti i proletari dell’area (compresi quelli israeliani).
La questione palestinese è troppo seria per essere lasciata agli Stati o alle forze politiche di ispirazione islamica. Il fondamentalismo islamico aggiungerebbe all’oppressione dell’oscurantismo religioso un ancor più rigido controllo sociale interno mentre, per adesso, pur scuotendo l’Entità Sionista, allontana la possibilità di costruire una strategia capace di permettere la nascita di un ambito in cui arabi ed ebrei possano vivere assieme senza sfruttamento e senza autorità.
La questione palestinese, perciò, non ha soluzioni immediatamente percettibili. Nessuna soluzione a breve termine è applicabile. L’unica soluzione è la lotta comune degli sfruttati palestinesi e di quelli israeliani contro i loro padroni, e in primo luogo contro lo Stato di Israele.
1 Movimento politico-religioso sorto in Europa alla fine del XIX secolo che rivendica il ritorno degli ebrei, dopo la loro dispersione del mondo (diaspora), nella terra dell’Israele biblico che dovrebbe comprendere la Palestina, il Sinai, il sud del Libano, il Golan e buona parte della Giordania – dove costruire lo Stato ebraico di Israele.
2 Semita: discendente, secondo il racconto biblico, da Sem figlio di Noè; sarebbero appartenuti a tale gruppo gli Assiri, i Babilonesi, i Fenici e gli Israeliti, e vi apparterrebbero oggi gli Arabi e gli Ebrei. Confondere quindi l’antisionismo con l’antisemitismo è un grossolano controsenso logico-formale usato strumentalmente dai sionisti per delegittimare la lotta dei palestinesi.
3 Termine usato nel mondo arabo per indicare lo Stato di Israele. L’espressione è vista come un mezzo per esprimere il rifiuto di riconoscerne l’esistenza. Prima del 1967, il termine era il termine più diffuso tra gli arabi per riferirsi ad Israele, anche nel linguaggio ufficiale.
4 In realtà una rete di muri in cemento, recinti di filo spinato e elettrificato, trincee, strade di pattuglia, torri di guardia e videocamere. La sua larghezza è in media di 60 metri ed è lungo 590 km.