A distanza di un anno, proponiamo il testo comparso come Editoriale del numero 56 della rivista Nunatak. Ci pare che la validità di quanto espresso non sia per niente cambiata.
Editoriale del n. 56 (primavera 2020) di Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna. (Scarica il PDF)
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE
Mentre la vita reale, per chi sta rinchiuso in casa, sembra rallentare come per chi è detenuto, la vita virtuale accelera macinando ogni minuto un nuovo imperdibile bollettino di guerra. Noi invece continuiamo a uscire ogni stagione, su carta, come sempre. Una scelta che rivendichiamo senza sindromi di inadeguatezza. Crediamo, tanto per iniziare, che tempo e spazio per ragionare non siano mai un lusso, e che libertà d’azione e di parola non siano barattabili con nulla, neanche con fantomatiche “salvezze”. A meno di non voler rinunciare a vivere per paura di morire.
Non è facile provare a ragionare con lucidità di ciò che sta accadendo in seguito alla diffusione del coronavirus, bombardati come siamo da un morboso bollettino di aggiornamenti, numeri, opinioni, dati, in cui l’“ora e qui” diventa assoluto, incomparabile, astorico. Come in guerra, non c’è spazio per il dubbio, e un’isteria collettiva, nazionalista e cameratesca, che si pensava relegata ad altri tempi, si rimpossessa di folle solitarie pronte a diventare carne da macello. L’antidoto a questa superstizione di massa – è una questione di igiene mentale – si può trovare soltanto staccando la spina dalla bulimia di informazioni e opinioni just in time.
Il problema non è, perlomeno in questa sede, disquisire sulla pericolosità e gravità di questo virus, così come della efficacia o meno di ogni nuovo divieto o provvedimento statale. Il problema è innanzitutto riconoscere che siamo in balia di un gigantesco apparato di millantatori, pseudo-sacerdoti che non sanno un bel niente. Le teorie microbiche infatti – seppur universalmente riconosciute – non tornano. Perché, ad esempio, alcuni individui si ammalano e altri no? Perché alcuni guariscono e altri no? Perché le epidemie nascono e perché regrediscono spontaneamente? Difficile rispondere se i malati sono concepiti come passivo terreno di conquista per “agenti stranieri” contro i quali lo Stato ha l’improbabile compito di proteggerci con divieti, soldati e frontiere (vaccini, farmaci…). Alla base dei differenti comportamenti dei soggetti viventi c’è un insieme complesso e inafferrabile di fattori in cui sfuma la distinzione tra il soggetto e l’ambiente circostante: alimentazione, sovraffollamento, povertà, inquinamento, radiazioni, intossicazioni, stress, gioia, traumi, fenomeni pregressi, perturbazioni psico-emozionali… Si tratta di un sistema-mondo, qualcosa di molto più potente della somma dei suoi singoli elementi, un universo misterioso e inevitabilmente rimosso dalla scienza medica attuale, non soltanto perché esula dai suoi paradigmi interpretativi e dalle sue pratiche (applicare protocolli in serie su batterie di pazienti inermi), ma anche perché sollevare quel velo porterebbe inevitabilmente a mettere in causa l’intero sistema tecno-industriale che è alla base dell’avvelenamento ecologico-sociale in cui siamo, e con esso la sua ragione di esistere.
Saremo dei sempliciotti, e saremo senz’altro accusati di invadere campi di sapere che non ci competono, ma una domanda ci sorge spontanea: non si è forse perso di vista il “tutto”, a forza di andare sempre più a fondo nel “particolare”? Davvero pensiamo che ci salveranno schiere di ricercatori curvi a osservare particelle sempre più microscopiche sui loro vetrini, quando alle loro spalle continuano a giganteggiare distese di monoculture industriali, allevamenti intensivi, miniere a cielo aperto, raffinerie, centrali, discariche di rifiuti tossici, ecc.?
Applicando meccanicamente i protocolli di questo tempo in questa società, costoro non solo non ci salveranno dal virus, ma continueranno a rinfocolare il modo di vivere che ne è all’origine. Da questo punto di vista, la scienza medica attuale si può tranquillamente definire come una gigantesca superstizione, e oggi, nell’attuale emergenza globale, come una gigantesca superstizione che non funziona. Perciò i governi di tutto il mondo hanno affidato a task forces composte da manager, tecnici e militari il compito di farla funzionare per forza, grazie all’applicazione delle loro migliori conoscenze. In una civiltà che avesse ancora un minimo di capacità critica e precauzioni di buon senso, tutti questi impostori starebbero penzolando nelle piazze come nemici della salute pubblica.
La vera emergenza è che dobbiamo riappropriarci del potere di decidere delle nostre vite (e – non meno importante – delle nostre morti), anche e soprattutto in momenti come questo, e non per un’idea astratta di libertà individuale, ma per una questione di salute e sopravvivenza, individuale e collettiva. Il vero nemico, il morbo più insidioso, è la dipendenza da un sistema statale, economico, produttivo, sanitario, burocratico, che lungi dal “salvarci” non fa che indebolirci – come singoli e come società – predisponendoci ai prossimi inevitabili disastri e pandemie.
Una società come quella in cui viviamo, perennemente terrorizzata dal crollo e dalla morte, rivela oggi di non avere, neanche idealmente, alcuna alternativa praticabile di fronte al pensiero unico e alla sua organizzazione sociale. Non c’è da stupirsi quindi che è quasi solo al di fuori della “ricca civiltà bianca e occidentale” che siano emerse posizioni non soggiacenti all’infantilizzazione e al ricatto della paura, là dove esistono pensieri e pratiche non assimilate o in conflitto aperto con l’ideologia del progresso e del capitale:
«Non basta lavarsi le mani e indossare una mascherina, dobbiamo edificare altri mondi possibili e costruire nuove arche. Seminare il nostro cibo, organizzarci, recuperare la medicina naturale, fare affidamento su scienze autonome, creare più scuole, accademie e pluriversità gratuite, trovare crepe nelle crisi e ripensare il modo di vivere collettivo, è compito dei ribelli … Io non resto a casa, il nostro compito come insorti è organizzarci con “quelli dal basso”, con quelli delle terre alte e della giungla, per costruire altri mondi in cui il virus del capitalismo patriarcale e tutti i suoi mali (pandemie, estrattivismo, machismo, colonialismo, discriminazione, violenza, ecocidio, etnocidio, imperialismo, partitocrazia) non possano entrare» (Sombrero rojo, Chiapas).
«Mentre il sistema capitalista si disintegra, l’unica cosa che ci può salvare siamo noi stesse. Mentre il mondo parla di come lottare contro il virus, noi parliamo del perché stiamo lottando. La libertà deve nascere dentro ognuna di noi e deve esprimersi nella nostra unità nonostante le restrizioni. La crisi del coronavirus non può aprire la porta al fascismo, al rafforzamento della repressione, alla diseguaglianza e all’isolamento. Gli Stati di tutto il mondo stanno approfittando di questo momento, usando la paura del popolo per prendere ancora più potere. Sopravvivremo solo se manterremo la collettività, nelle maniere oggi possibili. Il problema è la soluzione. Ogni lotta porta forza e apprendimento. Il nostro sistema di difesa sta nella natura. La vita non può essere prescritta sotto forma di “stili di vita” o di medicine chimiche. Questo è contrario alle migliaia di anni di conoscenza che nel passato giacevano nelle mani e nei cuori delle donne. Salute è avere cura delle nostre comunità, è amare la nostra esistenza e la terra che calpestiamo. La vita che ci circonda…» (messaggio da compagne internazionaliste in Kurdistan-Rojava, 21 marzo 2020).
La novità di questi giorni non sta nel fatto che si usi lo stato d’eccezione: questo è da tempo diventato la norma (basti pensare alla gestione dei terremoti in centro Italia). Semplicemente i nostri governanti non hanno più altri argomenti. Il fatto per certi versi inedito, e ricco di potenzialità, è che questa società è costretta a mettere in campo interventi che mettono in crisi il suo stesso funzionamento. Una società globale fondata su flussi continui di persone e merci, e che non può far altro che bloccare tutto e chiudere tutti in casa, semplicemente non può durare, è destinata a crollare in fretta.
Gli scenari che si aprono possono essere appassionanti. Non abbiamo sempre detto e urlato che dobbiamo farla finita con il mondo della Merce e dell’Autorità, perché questo sistema malato, iniquo e insensato ci sta portando dritti nel baratro? Allora forse questo è il tempo di finirla con le lamentele sullo Stato di polizia, sulla spietatezza dei padroni, sulla mala sanità… Forse è giunta l’ora di organizzarsi per costruire altro. Non sarà immediato, e non sarà indolore, ma quale altra possibilità abbiamo?
Della fiducia nel progresso, del resto, possiamo ormai parlare al passato. Anni fa un compagno bretone scriveva: «Di tutti gli idoli che ha conosciuto l’uomo, sarà quello del progresso moderno della tecnica che cadrà dagli altari col più tremendo fragore». Oggi, il fragore di quel tonfo ce l’abbiamo alle spalle, possiamo avvertirne l’eco nel silenzio delle metropoli deserte. Un silenzio, per ora, indecifrabile. Perché finora l’Occidente ha retto sull’assunto – non detto ma palese – che il livello di vita e di consumi del cittadino medio occidentale è di gran lunga preferibile a quello di tutte le periferie del mondo in cui vengono rapinate le risorse che lo garantiscono (e dove si muore ogni giorno, a decine di migliaia, e certo non all’età media di ottant’anni, di dissenteria, malnutrizione, malaria, parto, tubercolosi, senza che sia dichiarata nessuna emergenza). Guerre, fame, carestie, inquinamento, pandemie, sono i costi esternalizzati del benessere dei più ricchi e delle loro “libertà”, che soltanto le guerre e gli eserciti sulle frontiere possono garantire. Ora che le frontiere si sfaldano, che le pandemie arrivano da noi in business-class, che gli eserciti sono sotto casa nostra (e sono lì per noi), che la virulenza dell’iniquità dilaga anche nelle nostre metropoli e fin dentro le nostre gole… siamo ancora sicuri che ne valga la pena? Questa è la domanda. Perché finora la baracca ha retto perché – in Occidente – la risposta è stata «sì». Ma ora?
Ora i soldati sono nelle strade e presidiano i supermercati. Fuori dai templi del consumo si formano code rassegnate alla propria frustrante dipendenza. Quella che molti scambiavano per “libertà”, cioè la possibilità di acquistare qualsiasi cosa a qualsiasi ora, si rivela ora per ciò che è: una paurosa dipendenza. Basterebbe che – per un motivo qualsiasi – si interrompessero i flussi di petrolio e le città rimarrebbero senza cibo. Cosa faremo allora? Come potremo combattere un sistema da cui siamo al tempo stesso nutriti e avvelenati? Ciò che è divenuto chiaro in tutta la sua tragicità è che siamo sostanzialmente dei polli in batteria, nutriti da flussi di merci ed energia che non controlliamo, e che quelli che frettolosamente avevamo liquidato come non-luoghi, non sono solo i veri templi di questa civiltà impaurita, sono anche i suoi capisaldi strategici, da proteggere militarmente. Senza di essi, senza gli allevamenti intensivi, le monoculture, le biotecnologie, la produzione industriale di massa (vera causa della pandemia in corso), non solo la società concentrazionaria e metropolitana non potrebbe esistere, non potrebbe esistere la quotidianità a cui ci hanno abituato, ci piaccia o no. Nessuna verniciata di green potrà nascondere il bivio in cui siamo. Bisogna cambiare rotta.
Del resto le cause dell’epidemia, al di là dei dibattiti tra “esperti”, sono abbastanza evidenti: la violenza fatta sulla natura sta tornando al mittente, ed è difficile stavolta dare la colpa agli “immigrati coi barconi” o a quelli che vogliono “tornare ai tempi delle caverne”. Bisogna affrontare alla radice i miti sui cui si fonda la civiltà attuale, la sua idea di scienza e di progresso, il gigantismo e l’urbanizzazione, l’accumulazione e l’estrazione, i rapporti tra viventi che ne conseguono. Ma per farlo è necessario avere una base materiale da cui partire, altrimenti non ci resterà che mugugnare e poi rimetterci in coda per la quotidiana razione di veleni e di bugie. Per una volta, il significato della vita che vogliamo e soprattutto di quella che non vogliamo, il senso delle nostre scelte, delle nostre lotte, è diventato intuitivo, diretto, chiaro. Approfittiamone.
Abbiamo sempre parlato della montagna come «spazio di relativa libertà». Spesso abbiamo messo l’accento sul termine «relativa», per sottolineare quanto le montagne non siano immuni dall’influenza della metropoli e dalla loro colonizzazione; oggi, di fronte al delirio che si vive nelle città, non possiamo non mettere l’accento sul termine «libertà». Pur con tutte le cautele, non possiamo non cogliere quanto sia in atto una vera e propria frattura territoriale: luoghi con conformazioni geografiche e forme di vita differenti stanno affrontando il lock down in modi differenti.
La situazione vissuta nelle aree urbanizzate di tutto il mondo non è la stessa di territori con geografie e tipologie di insediamento umano più decentrate, tipo borgate di montagna di poche decine o centinaia di abitanti. Qui, una vita e un’economia di villaggio (dove ancora resistono), rispondendo innanzitutto ai ritmi della terra e delle stagioni, ai bisogni propri più che al commercio, hanno permesso agli abitanti – volendo – di vivere questo allarme con maggior serenità, seguendo pratiche di buon senso senza rinchiudersi in casa per rispettare divieti assurdi. Quello che è risuonato da più parti, da contatti con amici e compagni, lettori o vicini di casa, è che, generalmente, nei luoghi in cui già esistevano progetti collettivi, relazioni, esperienze basate su rapporti di reciprocità, insomma dove non si è partiti da zero, le collettività – di amici, di compagni, di vicini – si sono mantenute o addirittura rafforzate grazie al maggiore tempo a disposizione e al fatto di doversi occupare, volenti o nolenti, di tante attività quotidiane prima soddisfatte tramite il denaro e gli esercizi commerciali.
Se la geografia dei luoghi ha sicuramente un peso, dunque, ancor di più ne ha l’esistenza di forme seppur embrionali di organizzazione e di autonomia, di esperimenti e rapporti tesi a costruire già da ora il mondo che vorremmo veder sorgere domani. E ciò vale, ovviamente, tanto per le borgate montane che per le aree rurali e i quartieri delle città.
In generale possiamo dire che in montagna i progetti e le attività non si sono affatto fermate, anzi, ci risulta non siano pochi quelli che hanno vissuto questo periodo come una vera e propria «boccata di ossigeno». Quello che si è fermato, ovviamente, sono le attività salariate ed eterodirette (chi lavora in città, nelle fabbriche della bassa, nel turismo, ecc.), cioè tutte quelle attività che hanno espropriato la montagna e i suoi abitanti della loro autonomia e con essa della loro identità. È un’indicazione preziosa.
Accanto alle opportunità non mancano e non mancheranno i problemi, che già possiamo intravedere. Il fatto di essere luogo più vivibile e salubre farà diventare la montagna più attrattiva, rifugio per quei cittadini che se lo potranno permettere e quartiere dormitorio per stuoli di telelavoratori? Tornerà a essere meta turistica privilegiata rispetto ad altre più esotiche, con conseguente rincaro degli affitti? Aumenteranno le persone che vi ritornano ogni sera dalla città, magari con veicolo proprio per evitare contatto con altri e perché molti trasporti pubblici non saranno ripristinati? Quanto verrà accelerato l’impianto delle più moderne tecnologie, come il 5G, per aumentare la capacità di trasmissione dei dati informatici? Cambieranno le condizioni di lavoro per gli stagionali? (Una cosa la possiamo già dire: la chiusura anticipata delle infrastrutture turistiche si è tramutata in licenziamenti – spesso concordati e “volontari”, quindi senza diritto a risarcimenti o cassa integrazione – rivelando la debolezza dei dipendenti di fronte ai proprietari, come riportavamo nel numero scorso). Sono tendenze probabili, ma nulla è scritto. Si tratta, come sempre, di un conflitto in cui a decidere saranno i rapporti di forza che sapremo mettere in campo.
Da un lato non possiamo non affrontare i problemi quotidiani, soprattutto economici, che tutto ciò comporta per molti di noi e dei nostri vicini. Dall’altro ciò non ci deve impedire di afferrare il senso più generale della frattura in corso. La malattia è la perdita di autonomia a vantaggio di una società pestifera e concentrazionaria, e il rimedio c’è eccome: incominciare a liberarsene. Ora.
Del resto quali altre prospettive abbiamo? Se possiamo comprendere i motivi, strumentali o di necessità di fronte all’emergenza, che hanno portato molte persone a promuovere forme di solidarietà per … consegnare ai vicini le merci dei supermercati, crediamo che una riflessione autocritica sia quanto mai necessaria. Dopo anni di slogan come “blocchiamo tutto”, “fermiamo i flussi di merci”, oggi che questo accade – e non certo grazie a noi – diventa evidente la schizofrenia di dire una cosa e trovarsi a fare il suo contrario. Tutto questo deve dirci qualcosa. Non ci parla forse del ritardo con cui arriviamo ogni volta ai presunti appuntamenti della storia? Non ci sbatte forse in faccia la necessità di decidersi a riempire questa impreparazione, invece di sfinirsi a rincorrere emergenze che ci lasciano ogni volta sempre più impreparati per la prossima? Ciò non significa, sia chiaro, appartarsi in qualche margine o periferia a “riempire granai” in attesa del fantomatico momento buono. Al contrario, significa farla finita con l’attesa, colmare lo scarto che ci fa vivere sempre in attesa di qualcosa di là da venire. Il futuro non c’è, non c’è mai stato, e non ci sarà, è solo una maledetta trappola che ci espropria del nostro presente e del nostro passato. La liberazione futura sarà sempre, per definizione, di là da venire, e il presente un eterno cimitero di speranze disattese. «La libertà è il cammino», dice una canzone occitana. «La mèta è il viaggio», dice l’antico detto taoista. La rivoluzione è oggi. E non soltanto perché comincia ora, nella quotidianità, come processo che colma le nostre lacerazioni, ma anche perché la catastrofe c’è già stata e il diluvio è in corso. La rivoluzione non sarà la presa del Palazzo d’Inverno, la rivoluzione è il processo storico che sta sgretolando una civiltà e generando qualcos’altro. Quello che stiamo vivendo. Quello che facciamo. Sta a noi provare a far sì che prenda una direzione piuttosto che un’altra. L’emergenza attuale ce lo sta dicendo chiaro e tondo: costruire autonomia, relazioni di equità e reciprocità, capacità materiali, non è solo indispensabile in vista dei conflitti a venire, ma è nello stesso tempo l’unico modo per sopravvivere al presente. La catastrofe è ogni giorno, e ogni giorno sono le opportunità, le crepe, le occasioni. Potremo coglierle solo se avremo la forza, la presenza, l’organizzazione, la rete di relazioni, di energia, di strumenti e di conoscenze necessarie. Le occasioni sono tali solo se c’è qualcuno che le coglie. Se no, non sono neanche occasioni perse, non sono niente. Dobbiamo trasformare le nostre ferite in feritoie, prima che sia troppo tardi.