La strada
[Commentario al video “I Wanna Be Loved By You”]
Il sapere e la vita, invece che una dimora stabile, sono una via.
Pindaro
Guardando questi filmati senza sonoro, lo spazio e il tempo si dilatano fino ai giorni nostri, portando con sé sia l’ognora presente della rivolta sia la densità dei cambiamenti storici sopravvenuti.
Ai più giovani, molti di quei pretesi leader, di quei gruppi, di quelle bandiere, come anche il nome di vari politici che erano al governo o di quelli che hanno seguìto le violenze delle forze dell’ordine dalle sale video della Questura, dicono ben poco.
Altre cose rimangono, più facilmente riconoscibili in quanto si sono prolungate fino all’oggi su entrambi i lati della barricata: i dispositivi del potere, le forme e i modi della sommossa. Una fra tutte, l’espressione “Zona rossa”, che fa la sua eclatante comparsa mediatica proprio in quel luglio di vent’anni fa, la ritroviamo non a caso nel decreto d’urgenza con cui nel marzo dell’anno scorso il governo ha istituito il confinamento “anti-Covid”. E, a un livello più profondo, la volontà dello Stato di togliere dalle strade le molte migliaia di manifestanti che vi si erano affacciati, affinché in strada non ci tornassero mai più, è continuata con altri mezzi in quest’ultimo anno e mezzo. L’immagine mediatica del black bloc serviva, dopo Genova, non solo a dividere i manifestanti “buoni” da quelli “cattivi”, ma anche a distillare diffidenza verso il proprio vicino, attraverso la costruzione della figura dell’infiltrato. Oggi la diffidenza, questo veleno dell’impotenza assunta come modo di vita, colpisce l’altro in quanto tale, in quanto essere umano, vista la prossimità – anche etimologica – tra contatto e contagio.
Qua combattimenti e feriti, là bagni e taverne.
Tacito (citato da Marx)
Altri paralleli. Alcuni giornalisti e sindacalisti presenti durante la mattanza nella scuola Diaz hanno raccontato di aver pensato, di fronte a una violenza poliziesca tanto brutale e indifferenziata, che in Italia ci fosse stato un colpo di Stato; non riuscivano a credere che quello fosse il lato notturno della democrazia, né che un governo avrebbe potuto restare in carica dopo tutto quel sangue. E in effetti è probabile che in altri Paesi d’Europa il governo sarebbe caduto, sommerso dalle innumerevoli testimonianze (e anche immagini nitide) di botte, torture, violenze sessuali. Ma non in Italia – dove la democrazia aveva già saputo dare eccellenti prove sul campo, lungo il trentennio precedente. Anche in questi ultimi quindici mesi si è urlato alla dittatura e alla violazione più sfacciata della Costituzione. Si può ben dire che la lezione di Genova – le strade, i muri, i pavimenti, i materassi, i termosifoni sporchi di sangue – non è bastata. Ma si deve anche aggiungere che il governo, all’epoca, ha goduto di una certa qual dose di fortuna o, per dirla in maniera più diretta, ha avuto un culo bestiale. Due mesi dopo le giornate genovesi, infatti, la rabbia contro la polizia stava crescendo, assieme alla voglia di tornare in strada, e si moltiplicavano le azioni dirette. A cambiare d’improvviso le carte in tavola, a togliere addirittura il tavolo da gioco, sono stati l’11 Settembre e la “guerra infinita” che ne è seguìta. Ne è derivata una tetanizzazione delle lotte molto grave e profonda, a dimostrazione che il dominio non avanza in modo lineare, ma grazie a una serie di putsch e allo schock che ne deriva. I bagni e le taverne della democrazia, intanto, sono rimasti ben aperti. Proprio come a Genova i potenti, accompagnati da valletti e orchestrali, hanno continuato a banchettare in nome delle libertà democratiche e a farsi fotografare sorridenti, mentre nelle strade i loro scherani in divisa avanzavano battendo marziali i propri scudi con i tonfa (i manganelli allora nuovi di zecca), gasavano con i CS (i lacrimogeni anch’essi nuovi per l’Italia) e rompevano le ossa canticchiando Faccetta nera (questa, no, non era nuova).
I tempi non sono maturi! … Chi farà i tempi maturi? E chi ne avvertirà del momento quando lo saranno? E che farete voi allora, perché non lo fate adesso? Voi direte allora: i tempi non sono maturi. … I tempi sono maturi, quando domina l’ingiustizia, quando trionfa il male, quando la misura è colma. … I tempi sono maturi.
Carlo Cafiero, I tempi sono maturi, 1875
Vent’anni fa s’è scritto che Genova non è un brutto ricordo, è una miccia accesa… E la detonazione è arrivata. Non solo lacrimogeni e maschere antigas sono diventati sempre più frequenti – e l’aria sempre più irrespirabile –, ma la sommossa è fuoriuscita dallo spazio delimitato e ampiamente teatralizzato dei “contro-vertici” e delle ritualità militanti, con i loro ruoli e le loro pantomime. Le aree riformiste e disobbedienti non si sono più riprese. Quando, il 15 ottobre 2011, hanno provato a lanciare un grande raduno a Roma, il contesto era talmente cambiato che gli scontri non sono stati contro di loro, ma senza di loro (nella piazza in cui avrebbero voluto piantare le tende, migliaia di rivoltosi piantavano grane…). Il “black bloc”, intanto, aveva raggiunto Atene, Londra, Parigi, Berlino, El Cairo, Santiago, Chiomonte, Chianocco, Buenos Aires, Istanbul, Beirut, Tunisi… con tanti “buoni” che si mescolavano ai “cattivi” grosso modo nella misura in cui le notizie dal fronte democratico si facevano pessime per tutti. Dal maggio dell’anno scorso a oggi, le pratiche di esproprio – ancora timide a Genova – sono dilagate negli Stati Uniti, in Cile, dentro lo Stato di Israele, in Colombia. L’assalto al carcere, generosamente tentato a Marassi, in questi vent’anni è riuscito in altre parti del mondo. A Tuluá (Colombia), il 25 maggio scorso i rivoltosi hanno interamente distrutto il Palazzo di Giustizia.
Se lunedì ingerisci delle foglie verdi, martedì dell’aceto e mercoledì dell’olio: potrai dire, giovedì, di aver mangiato un’insalata?
Friedrich Hebbel, Diari (1835-1863)
Se si dovesse racchiudere Genova 2001 in un’immagine, forse la più adatta sarebbe questa: un militante del sindacalismo di base che si aggira nervoso tra gruppetti di manifestanti nerovestiti, che hanno già cominciato a divellere segnali stradali, pali e cubetti di porfido, invano ripetendo loro: “Questa è una piazza tematica! Questa è una piazza tematica”. Il previsto di quelle giornate di luglio era proprio questo: i diversi spazi tematici, ciascuno con i propri contenuti e le proprie rivendicazioni, ad attendere tranquillamente il grande corteo in cui tali “piazze” sarebbero dovute confluire, in una rappresentazione a beneficio delle telecamere della sempreverde “convergenza delle lotte”. Poi, la sera, i “portavoce” da Gad Lerner, e tutti gli altri ad ascoltare Manu Chao. Merito non da poco della sommossa genovese e dell’imprevisto ch’essa ha portato nelle strade è stato senz’altro quello d’inceppare il ben oliato rotismo di piazze tematiche, conflitto concordato, spazi assegnati e negoziati dentro i cortei, col suo contorno di “rappresentanti”, Stati Generali e piattaforme… Quella terra desolata del militantismo – oggi un po’ di foglie verdi, domani un po’ di aceto, dopodomani dell’olio… – è durata ancora qualche anno, finché non è uscito dai suoi nascondigli (cioè dalle sue individuali battaglie quotidiane) il nuovo mostro proletario; e chiunque non abbia le fette di salame sugli occhi può ora riconoscerne le fattezze dietro i passamontagna dei rivoltosi di Genova.
Si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso. … “Ora o mai più!”. Si trattava di agire una volta per tutte, e il frutto dell’azione era contenuto nell’azione stessa. Ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile, significava essere in accordo con il tempo; ogni indugio, essere fuori del tempo. … L’avversario del momento diviene veramente il nemico, il fucile o il bastone o la catena di bicicletta divengono veramente l’arma, la vittoria del momento – parziale o totale – diviene veramente, di per se stessa, un atto giusto e buono per la difesa della libertà. … Quando è finito lo scontro – si può essere in prigione, o in un nascondiglio, o tranquillamente a casa propria –, si stende la terra di nessuno e ricominciano le individuali battaglie quotidiane.
Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, 1969
Vaste schiere di proletari, di uomini di antica o più recente povertà, gl’indigeni e la sradicata progenie degli sradicatori, e infine i molti babbioni di ceto medio che nell’assenza di un futuro predeterminato e confortevole scoprono una insperata possibilità d’intelligenza e di apertura all’umano, tutti costoro nei filmati senza sonoro di Genova possono oggi rivedere quanto hanno fatto il giorno prima o sognano di fare il giorno dopo; delle parole non hanno bisogno, ché sono le stesse che parlano i loro cuori, e bastano gli sguardi.
Carlo Giuliani non ha mai avuto così tanti complici, dalle lingue e dalle pelli più variegate. Davvero, valeva la pena che la memoria durasse questi vent’anni.
Mentre i tecnocrati e i loro servitori picchiano duro, di una cosa possiamo essere sicuri. Solo chi rimane indifferente e chiuso alla libertà e alla gioia che quelle giornate di luglio contenevano ha ad aspettarlo un futuro triste e già scritto. Per gli altri, invece, è possibile ancora fare tante storie, e incamminarsi lungo non segnate vie.
La dialettica radicale non getta la parola come una bottiglia vuota: una comune sapienza insegna ogni giorno agli insorti di quale uso creativo si ricarichino le bottiglie. È questa stessa la sapienza che qui prende la parola: essa non ha da comunicare ad altri che al suo bersaglio. La fratellanza dell’ira non ha bisogno di dottori. Sappiamo tutto di noi, da quando sappiamo che ognuno di noi è il semplice contrario di tutto ciò che lo nega. Nella dialettica radicale, parla una coscienza che si separa per sempre dall’infelicità.
Giorgio Cesarano
Luglio 2021
Da questo lato della barricata