“DI RESPIRARE LA STESSA ARIA DEI SECONDINI NON CI VA”
(di Un membro della Congrega dei Caparbi)
Poco prima dei giorni del G8 avevamo scritto che il potere, tra le altre cose, si riprometteva dall’or-ganizzazione di quella kermesse di “vedere fino a che punto ci si può spingere nella vessazione e nella provocazione esasperata, senza che noi sudditi siamo spinti a reagire direttamente”. Ora lo ha visto. L’abitudine ad un’apatia pressoché assoluta degli assoggettati durata un quarto di secolo lo ha indotto a spingersi veramente troppo oltre nei suoi esperimenti e la reazione ha sorpreso un po’ tutti.
Lo spettacolo di Genova sperimentalmente ristrutturata per una “situazione di crisi” il mattino di venerdì 20 luglio era veramente inedito. Tutta la città medioevale e parte di quella ottocentesca trasformate in un funereo ghetto cinto da grate nere alte cinque metri, che imprigionavano nella cittadella degli 8 Ganster gli ultimi abitanti che non si erano lasciati indurre alla fuga. Il molesto ricordo dei dispiaceri imprevisti procurati alle truppe di occupazione naziste dagli accerchiati del ghetto di Varsavia quando spuntavano dai tombini doveva avere spinto a saldare questi ultimi; ma i peggiori topi di fogna non erano rimasti nel sottosuolo. La rimanente zona ottocenteca-novecentesca chiamata “zona gialla” (un involontario ricordo della stella giudaica?), la cui agibilità gli autonominati “capi” della contestazione avevano creduto di aver “strappato” nelle “trattative” con le autorità che li menavano per il naso, era vietata al transito ed era stata materialmente ridisegnata nottetempo con muraglie di “container” (non requisiti ma presi in affitto da ditte che meriterebbe di conoscere). Altre vie erano chiuse da cancelli mobili annessi ai blindati della polizia. Il resto della città era completamente svuotato dei negozianti, che per lo più avevano provveduto a sbarrare i loro negozi con paratie di varia natura, e degli abitanti, che mesi di disinformazione terroristica e di fraterni “consigli” da parte dei protettori in divisa avevano spinto a fuggire o a nascondersi. Perfino la normale lebbra automobilistica era pressoché del tutto scomparsa dalle sedi stradali e dai parcheggi. Agli angoli delle vie di questo mondo a rovescio, sciami di scarafaggi neri e grigi si mostravano impazienti di completare l’immane opera di disinfestazione, ripulendo col gas, gli idranti e il manganello lo spazio rimanente da ogni inutile presenza umana.
Non si trattava solo di una inaudita performance di ristrutturazione architettonico-urbanistica effimera che surclassa qualsiasi manifestazione delle neoavanguardie “artistiche” con una specie di “opera d’arte totale” quale mai nessuna avanguardia potrebbe sperare di realizzare, ma dell’autentico tentativo di fabbricazione dell’impossibilità materiale della benché minima creazione di situazioni da parte degli umani, volta a significare materialmente a tutti quanti non facessero parte dei topi e degli scarafaggi la loro assoluta superfluità, anche se motivi economici avevano sconsigliato di accogliere l’invito cartesiano del replicante che presiede la regione a proclamare zona rossa tutta la città, deportandone gli abitanti al completo.
L’unico riflesso elementare di autoconservazione che una costruzione di tale paranoica aggressività poteva suscitare in ogni essere vivente superiore all’ameba era quello di fare a pezzi e dare fuoco seduta stante a qualsiasi cosa apparisse parte della megatrappola, salvo poi accorgersi magari di esservisi così rinchiusi dentro: c’è solo da stupirsi dunque della straordinaria freddezza e della lucida autolimitazione dimostrata in questo campo dai “ragazzi” di San Fruttuoso, di Marassi, di Manin, tra i quali i cosiddetti “Black Bloc” stranieri organizzati che, con la loro austera dieta di banche, assicurazioni e carceri, rischiavano di apparire “buoni maestri”
perfino un po’ astrattamente e pleonasticamente pedagogici. Nonostante i sociologi e i moralisti del terrorismo mediatico da tempo avessero preparato il cliché dell’hooligan disadattato da stadio, e lo abbiano puntualmente benché senza convinzione ripreso dopo i fatti, esso non ha avuto successo: la ribellione di strada ha mostrato una notevole consapevolezza della situazione, dei rapporti di forza e si è mossa in maniera lucida e ragionata, per esempio andando ad attaccare le carceri invece di accanirsi attorno al palio della zona rossa, tanto che i carrieristi della sottopolitica sedicenti “non violenti”, “disobbedienti civili” eccetera, cui la ribellione diffusa aveva rotto il giocattolo, hanno subito preferito, come a Seattle, lo schema di “spiegazione” stalinista a quello sociologico: chi non obbedisce alle loro direttive non ha la dignità di una posizione propria, pur se da essi non condivisibile o condannabile, ma è un personaggio “strano”, ambiguo, manipolato dalla polizia, se non semplicemente un “provocatore”, un poliziotto infiltrato o un neonazista travestito, come ha scritto ad esempio il professor Dal Lago sul Manifesto. Gratta l’argomentazione “politicamente corretta” e troverai immancabilmente quella stalinista.
Una settimana prima del G8, il sociologo ex-lotta- -continuista pentito ed ex-portavoce trombato del partito dei Verdi italiani Luigi Manconi vantava su “La Repubblica” le virtù delle “rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati”, apparsi come veri “grazie alla raffigurazione fotografica e televisiva”, nel prolungare il periodo più che decennale di assenza dei movimenti di piazza in Italia. Tesseva l’elogio delle “simulazioni” delle “tute bianche” e dei “gruppi di affinità” volte ad offrire un canale “sportivo”, cioè ritual-agonistico, alla “aggressività” inevitabile dei movimenti nascenti per disinnescare la violenza, e offriva come modello per il G8 l’esempio di un anno e mezzo prima, quando, “nel corso di una riunione della prefettura di una città del nord, i responsabili dell’ordine pubblico e alcuni leader di movimento discussero puntigliosamente e, infine, convennero minuziosamente – oltre che sul tragitto – sulla destinazione finale del corteo. E ci si accordò sul fatto che ci fosse un punto, segnalato da un numero civico, raggiungibile col consenso delle forze dell’ordine, e un altro punto, segnalato da un numero successivo, non “consentito” ma “tollerato”. Lo spazio tra i due successivi limiti – un centinaio di metri – fu, poi, il “campo di battaglia” di uno scontro totalmente incruento e pressoché interamente simulato (ma tale non apparve nelle riprese televisive) tra manifestanti e polizia” (“La Repubblica”, 14 luglio 2001). Su “Il Manifesto” di domenica 22 luglio la deputata verde Zanella si lamenta che questa forma di “contatto” concordato a Genova non abbia funzionato: il corteo delle Tute Bianche di venerdì bisognava “lasciarlo avanzare fino alla linea rossa com’era stato concordato dal GSF” e poi “c’era da concordare un segnale simbolico per le Tute Bianche, bastavano cinque centimetri di zona rossa… ma non è stato possibile contrattare nulla”. Nella sua audizione da parte della commissione d’indagine parlamentare, l’ormai ex-questore di Genova Colucci ha affermato invece che la “sceneggiata” era stata concordata anche questa volta, ma non aveva funzionato: ognuno dei due attori antagonisti rimprovera all’altro di aver “cominciato lui” con i colpi veri.
Se Genova fosse servita solamente a spazzare via le prospettive di carriera di questo genere di manipolatori sarebbe già molto.
Un membro della Congrega dei Caparbi