Venerdì 8 gennaio 2021 si è concluso il primo grado del processo che ci vede imputati/e per il taglio dell’acqua alla casa occupata di via Don Monza 18 a Saronno.
Un processo durato parecchi anni, per fatti risalenti all’autunno del 2013.
La sentenza prevede condanne per una decina di persone che vanno dai sei mesi all’anno e due mesi e un risarcimento di circa 1.500 euro nei confronti del Comune, ampiamente ridimensionato rispetto alle richieste del Comune stesso (che erano di 27000 euro per il danneggiamento di una porta scorrevole). Ci teniamo a rinfrescare la memoria sui fatti.
Nell’autunno del 2013 esistevano due occupazioni a Saronno, il Telos e la casa occupata di via Don Monza; quest’ultima, nata da un percorso sull’emergenza abitativa portato avanti dal Collettivo Autorganizzato Saronnesi Senza Casa, era situata in un edificio dismesso, da una decina d’anni, di proprietà del Comune. Fu una casa per ragazzi e ragazze della zona, un luogo di incontro e in cui sperimentare la vita in comune, uno spazio che accolse delle persone rimaste per strada in seguito agli sfratti, uno spazio che ospitò iniziative di vario tipo, dalle serate musicali ai dibattiti politici ai cineforum.
In quell’autunno il guizzo geniale della giunta in carica (Partito Democratico) decise di provare a spazzare via quell’esperienza ricorrendo ad un metodo a dir poco aberrante: tagliare la fornitura d’acqua alla casa nel tentativo di costringere gli/le abitanti a lasciare il posto perché invivibile.
In tal modo avrebbero ottenuto una doppia vittoria: non solo liberare lo stabile, ma farlo apparentemente senza l’uso della forza.
Le cose non andarono propriamente secondo i loro piani: ad un primo tentativo di taglio dell’acqua da parte di Saronno Servizi seguì un’ immediata reazione che lo impedì – fisicamente, intralciando i lavori con i propri corpi – riportando alla condizione normale la struttura.
La risposta del Comune fu un secondo intervento, questa volta scortati da polizia e carabinieri, che effettivamente tagliò la fornitura d’acqua.
In seguito ci fu un tentativo da parte di occupanti e solidali di fare un volantinaggio in Comune, accompagnato da un’ azione simbolica (prendere con delle taniche l’acqua dai bagni), per raccontare alle persone cosa fosse successo: fummo aggrediti fisicamente dalla polizia locale che ci accolse sulla porta del Comune pronta a menar le mani. Citando un volantino scritto poco dopo i fatti nel 2013: “forse volevano difendersi da un po’ di fogli scritti, forse avevano proprio paura di leggere (non immaginiamo cosa farebbero in una biblioteca, circondati dai libri)”.
Questi fatti avvennero in due giornate di novembre 2013, dopo le quali gli/le occupanti tennero duro e trovarono soluzioni alternative, riuscendo a vivere faticosamente ma dignitosamente anche senza acqua corrente, e ad aprire lo spazio ad iniziative politiche, culturali, ludiche, fino allo sgombero vero e proprio avvenuto ad opera della polizia nel gennaio del 2014.
Quei due giorni hanno portato ad un processo con svariati capi di accusa (interruzione di pubblico servizio, violenza e minacce, furto e danneggiamento), iniziato nel 2015, rinviato varie volte, che ha visto il passaggio di mano in mano di almeno tre giudici, di due giunte comunali (Pd e Lega), la perdita dei fascicoli da parte dell’accusa, l’inserimento nel processo di due persone totalmente estranee ai fatti, e le testimonianze false da parte del capo della Polizia Locale.
Se c’è una cosa che questo processo ha fatto è stato rafforzare la convinzione che le aule di tribunale siano un continuo teatrino sconnesso dalla realtà, e che per non essere vittime della realtà omologata che tentano di imporre sia necessario uscire dalla dicotomia legale/giusto illegale/sbagliato e portare avanti con le azioni una critica radicale al mondo che abbiamo intorno.
Per noi è stato giusto opporci al taglio dell’acqua, e lo rifaremmo.
È stato giusto occupare e dare nuova vita a luoghi lasciati all’abbandono e abbiamo continuato a farlo negli anni e a sostenere chi ostinatamente cerca di sperimentare l’autogestione e organizzarsi per provare ad affrontare insieme l’alienazione, l’isolamento e la delega di ogni aspetto della propria vita a cui tende la società.
Gli/le imputati/e